Sono tornato.
Le coordinate gravitazionali indicavano “Oltrepò Pavese” (latitudine 44.9930° N e longitudine 9.1950° E). Dall’alto l’area si mostrava come un mosaico verde‑oro, ricamato da linee perfette che evidenziavano oggetti non meglio identificati che i locali chiamano “i filari di Pinot Nero”.
Ho librato l’astronave sopra un campo inondato di bruma mattutina, poi ho spento i motori al plasma per andare alla scoperta della vendemmia in Oltrepò Pavese
Un profumo inaspettato mi ha invaso i sensori olfattivi: mosto fresco, foglie umide, terra scaldata dal sole che ancora non si vedeva.
La vendemmia era iniziata.
Il popolo dei viticultori
Li ho visti arrivare a grappoli, come le stesse uve che avrebbero colto. Umani di ogni età, cappelli di paglia, mani esperte, forbici lucenti. Parlavano un miscuglio di dialetto e risate. Al mio pianeta le emozioni si dosano in decibel; qui, invece, le emozioni si misurano in gesti antichi: tagliare, raccogliere, adagiare.
Una umana, in modo garbato e gentile, mi ha passato un secchio rosso dicendomi «Vieni con noi, forestiero!».
Ho infilato i guanti (dermosintetici, ovviamente) e mi sono unito alla fila.
La raccolta dell’uva
Sotto quelle foglie compatte, i chicchi di Pinot brillavano come minuscoli soli violacei. Toccarli è stato come toccare la cronologia di questo pianeta: millenni di agricoltura, pazienza, stagioni.
Ho stretto le forbici e ho fatto scattare la lama. Il raspo si è staccato con un suono netto, quasi un applaudo sordo. Succhi dolci hanno macchiato i miei guanti e in quell’istante ho capito che stavo prelevando memoria liquida.
La colonna sonora della vendemmia
Non c’erano strumenti elettronici, solo cicale, passi nell’erba, secchi che si colmavano.
Di tanto in tanto, un trattore brontolava come un vecchio nonno parlandomi della vendemmia in Oltrepò Pavese . Il vento, leggero, pettinava le chiome dei filari e portava con sé l’eco di una canzone popolare: “Sota el ciel de l’Ultrepò”. Ho compreso poche parole, ma non importava: la musica, qui, è linguaggio universale.
Sul mio pianeta il gusto è solo una variabile chimica; qui, invece, ogni molecola è un ricordo.
Ho addentato un acino appena colto. All’inizio dolcezza, poi un’acidità frizzante, infine la tannicità lieve tipica del Pinot.
È stata una sinestesia: ho visto colori mentre gustavo; il verde dell’erba diventava più vivido, il cielo più profondo. Ho capito perché i terrestri associano il vino alla poesia.
Il mosto che danza
Nel pomeriggio, i secchi pieni sono stati svuotati nella pigiatrice. Gli acini esplodevano come piccole supernove di succo. Il mosto scorreva in vasche d’acciaio riflettendo il sole pomeridiano.
Una vendemmiatrice mi ha invitato ad assaggiare. Ho sorseggiato: era l’essenza dell’uva, ancora vibrante di vita, lievemente spumosa.
Sul mio pianeta c’è un detto: “Bevi ciò che sei”.
Quel sorso mi ha reso, per un battito di cuore, parte della Terra.
Ho osservato le mani dei vignaioli: nodose, forti, segnate da cicatrici leggere.
Ogni taglio, ogni callo, raccontava stagioni piovose, grandinate, estati roventi.
Eppure, nei loro occhi, ho notato la stessa luce che vedo nei bambini di Marnis‑7 quando imparano a levitare: meraviglia pura.
Pranzo tra i filari
Alle tredici in punto, qualcuno ha gridato “Pausa!”.
Una tavolata apparecchiata su assi di legno, sotto un pergolato, è comparsa come per magia. Pane croccante, salame di Varzi, formaggi stagionati, frittata alle erbe di campo. E una bottiglia di ottimo vino locale.
Tra un morso e l’altro mi hanno spiegato che l’Oltrepò Pavese è la “terra dei quattro vini”, ma anche dei sapori contadini. Io ho registrato ogni ricetta nella banca dati gastronomica interstellare.
Dopo il pasto, ho camminato in solitudine lungo un crinale. Le colline si distendevano come lenzuola ondulate, cucite da linee di vite. Qua e là, campanili, cascine in pietra, boschi di castagni e roveri.
L’aria sapeva di muschio e di mosto. Ho chiuso gli occhi. Il pianeta Terra mi ha parlato in silenzio.
Subito dopo scesi in cantina. Botti di rovere allineate come soldati profumavano di vaniglia, spezie, legno tostato. Il cantiniere, con la solennità di un sacerdote, ha estratto un campione da una barrique. Il liquido rubino ha ondeggiato nel bicchiere.
Mi ha chiesto di annusare: frutti rossi, pepe nero, un accenno di sottobosco. Poi di assaggiare: seta liquida, freschezza, tannini finissimi.
«Questo è il futuro Pinot Nero Riserva» ha detto.
Ho pensato: Futuro? Ma io sto già bevendo un tramonto di due anni fa…
La vendemmia in Oltrepò Pavese: il rito del tramonto e il fascino della notte
Il sole si posava dietro la collina, colorando il cielo di arancio e ametista. I grappoli rimasti brillavano come gemme. Un silenzio corale avvolgeva tutto.
Mi sono sentito minuscolo e infinito allo stesso tempo.
A cena, intorno a un tavolo di legno grezzo, ho chiacchierato con gli abitanti.
Mi hanno parlato di cambiamenti climatici, sfide del mercato, orgoglio di restare… e anche di, incomprensibile, antagonismo tra le persone locali. Dicono sia una caratteristica!
Una giovane enologa spiegava la differenza tra micro‑ossigenazione e macerazione a cappello sommerso con la stessa passione con cui un marnisiano descrive una tempesta solare.
Ho compreso che qui la scienza è al servizio delle emozioni.
Poco prima di mezzanotte, sono tornato in cantina. Le vasche gorgogliavano: la fermentazione era iniziata. Quel suono, un lieve borbottio ritmico, era il battito cardiaco del vino che nascente.
Ho appoggiato la mano su un fermentatore in acciaio: vibrava di vita.
Ho pensato alle stelle lontane e a come, in fondo, tutto l’universo sia una gigantesca fermentazione di materia e sogni.
Sogni notturni e riflessioni all’alba
Ho dormito in una vecchia cascina con le travi di legno sopra il mio letto che odoravano di secoli di storia. Ho sognato grappoli che si sollevavano in volo, costellando il cielo. In quel sogno, ogni stella era un acino e ogni galassia un tino colmo. Mi sono svegliato con la sensazione del mosto ancora sulle labbra.
L’indomani, prima che il sole sorgesse, sono salito sopra la torre campanaria di un piccolo borgo. Da lassù, la nebbia mattutina sembrava latte versato sulle valli.
Il silenzio era totale. Ho registrato un messaggio per il Consiglio Galattico: «La vendemmia terrestre è un atto di fede. L’uomo scommette su clima, tempo, fortuna. Ogni bottiglia è un manifesto di speranza condensata».
Poi ho aggiunto, a bassa voce: «E il Pinot Nero dell’Oltrepò è poesia liquida».
Il mosto che danza nella vendemmia in Oltrepò Pavese
Nel pomeriggio, i secchi pieni sono stati svuotati nella pigiatrice. Gli acini esplodevano come piccole supernove di succo. Il mosto scorreva in vasche d’acciaio riflettendo il sole pomeridiano.
Una volontaria mi ha invitato ad assaggiare. Ho sorseggiato: era l’essenza dell’uva, ancora vibrante di vita, lievemente spumosa.
Sul mio pianeta c’è un detto: “Bevi ciò che sei”.
Quel sorso mi ha reso, per un battito di cuore, parte della Terra.
Ho osservato le mani dei vignaioli: nodose, forti, segnate da cicatrici leggere.
Ogni taglio, ogni callo, raccontava stagioni piovose, grandinate, estati roventi.
Eppure, nei loro occhi, ho notato la stessa luce che vedo nei bambini di Marnis‑7 quando imparano a levitare: meraviglia pura.
Rapporto interstellare sulla spedizione compiuta
A mille parsec di distanza, ho consegnato il mio rapporto sulla vendemmia in Oltrepò Pavese descrivendo, con precisione, il ciclo biologico della vite, la composizione del terreno calcareo‑marnoso, la percentuale di antociani nel Pinot.
Ma quando il Presidente del Consiglio mi ha chiesto: «E tu cosa hai provato?», ho sorriso. Ho estratto la bottiglia di mosto che avevo nascosto nello zaino. «Provi, Presidente, e lo capirà da sé».
La vendemmia in Oltrepò Pavese non è solo un atto agricolo.
È musica, storia, chimica, fede, arte.
È un abbraccio collettivo tra uomini, colline e cielo.
E per un marziano in cerca di significato, è la prova che l’universo intero vive in un singolo acino d’uva.